In viaggio per l’Angola
Angola!
In Italia, si sa poco dell’Angola, e, quel poco che si sa, spesso è sbagliato.
È in Africa, va bene, ma pochi sanno dove collocarla (è tutta sull’oceano Atlantico, sopra la Namibia), quanto grande sia (cinque volte l’Italia), quale lingua vi si parli (portoghese), quale sia la religione predominante (cattolica, con due Pontefici andati a visitarla) o l’ordinamento costituzionale (repubblica presidenziale, con le ultime elezioni tenutesi il 31 agosto 2012).
La ricordano solo per la guerra civile, le mine e l’aids, ma ignorano che la guerra civile è finita con la pace del 4 aprile 2002; che le mine non minacciano più città, villaggi e comunicazioni; che l’aids è sotto controllo.
Soprattutto, non conoscono il suo popolo, onesto (in tanti anni non mi è mai stato rubato uno spillo) e pronto ad aiutare: quante volte sono rimasto fermo per la strada, giorno e notte, e sono stato aiutato in cambio di un sorriso!
“A Luanda bisogna avere un paracadute”, aveva detto la mia fata buona, quando le parlai del mio primo viaggio in Angola, e il paracadute lo trovai all’aeroporto: aveva le sembianze di una sua amica, con la macchina e l’autista. Per districarmi nel traffico.
Era da poco scoppiata la pace e Luanda, passata all’improvviso da cinquecentomila a cinque milioni di abitanti, si dava da fare per sopravvivere alla nuova urbanizzazione. Cominciando dalle strade. Raddoppiando o triplicando in sede quelle esistenti.
Da ogni parte, e da prima che facesse giorno, si vedeva solo un fiume immobile di fuoristrada, pronti a contendersi il centimetro, e, qua e là, il guizzare di pesciolini azzurri. La città aveva rinunciato a ogni forma di trasporto pubblico di massa e i pesciolini erano i pulmini azzurri dei candongueiro: a loro era affidata la mobilità della popolazione che non poteva permettersi una macchina propria.
“Gamék! Gamék!” sono state le prime parole “locali” che ho imparato.
Era il richiamo che l’aiutante dell’autista candongueiro, appeso fuori dal pulmino che faceva la candonga, il trasporto, urlava in continuazione per richiamare i possibili passeggeri.
Oggi i taxi ci sono, ma allora esistevano solo i candongueiro e il trasporto avveniva da un quartiere all’altro e per me, ospite in un lodge a Futungo II, Gamék era il primo quartiere che s’incontrava in direzione del centro. Arrivati a Gamék, si cambiava fino all’aeroporto. Dall’aeroporto, un altro pulmino portava fino a Mutamba, in centro.
In alcune nazioni, si guida tenendo la destra; in altre la sinistra: in Angola, il candongueiro guida avanti. Ieri come oggi. Sa che, fra due punti, la linea retta è il cammino più breve, e la segue: sorpassa a destra e a sinistra, va contromano, entra nelle file di prepotenza, sfida l’impenetrabilità dei corpi e vince sempre.
Ancora oggi, il traffico nel centro di Luanda è congestionato, ma nessuno si alza più alle due del mattino per arrivare in ufficio alle otto. Le grandi direttrici sono state completate, ma mancano le strade trasversali e bisogna percorrere chilometri, da una rotonda all’altra, per invertire il senso di marcia.
In un paio d’ore e con tanta pazienza, raggiungo la periferia, e la città cede alla natura.
Conosco bene i villaggi e le città che mi scorrono ai lati, ma il primo viaggio a Huambo, anni fa, lungo seicento chilometri, l’ho fatto in solitario e avendo come guida solo i nomi delle località che avrei attraversato, annotati su un foglietto d’agendina. Lo conservo ancora.
Perché qui esiste il GPS, ma non si trovano le carte stradali.
Ora ci sono anche i distributori di benzina, lungo la strada: pochi, ma tranquillizzanti.
Fino a quattro anni fa, non ne trovavi uno, fra Alto Dondo e Huambo: un salto di quattrocento chilometri e, gli ultimi, da fare con l’occhio fisso sul pallino giallo della riserva. Sempre, tranne una volta: arrivai sereno fin dentro il cortile dell’Ospedale Regionale di Huambo e la macchina si fermò senza benzina. Ne avevo noleggiata una tanto piccola ed economica che non aveva l’indicatore della riserva.
La benzina oggi si trova, ma, quando arrivi a destinazione, il collo continua a fare male, come la prima volta, perché non puoi mai staccare gli occhi dal fondo della strada o distrarti un momento.
Tutte le capitali provinciali sono collegate, fra loro e con Luanda, da strade asfaltate, ma le distanze si misurano in centinaia o migliaia di chilometri.
Su questa rete immensa, lungo le vecchie strade tracciate dai portoghesi, prima è stato steso uno straterello d’asfalto, poi sono stati ricostruiti i ponti. Molti sacrifici, ma, per un anno o poco più, si è viaggiato ragionevolmente bene. Poi sono cominciati i problemi di manutenzione.
Perché l’asfalto è sottile e basta poco perché si formi un piccolo buco; poi arriva la pioggia, a scavare la terra sotto l’asfalto; alla fine passa un camion, crolla l’asfalto e si apre la voragine.
Di recente ho ripetuto il percorso Huambo Luanda e, per duecentocinquanta chilometri, la strada non esiste più: sono rimasti solo i ponti in cemento armato. Era un giorno di festa e le macchine erano il passatempo per gli abitanti dei villaggi: si mettevano vicino alle buche più profonde per vederle passare. O soccombere nei crateri.
Sono passato da una buca a un’altra, entrato dentro piano e uscito fuori quasi fermo. In tempo per evitare bolle di asfalto alte come colline, create dal peso dei camion sulla terra molle delle buche.
I problemi, comunque, sono sempre esistiti, perché il cartello di lavori in corso da queste parti non usa e la manutenzione delle strade si fa a tratte e in tre tempi: prima si aspetta di avere buche in numero sufficiente; poi si regolarizzano tutte insieme, tagliando l’asfalto in forme regolari; poi si riempiono.
La conseguenza è il test dell’alce in versione angolana e, quando viaggi a 120 l’ora e vedi l’asfalto mancare all’improvviso, freni, sterzi e superi, se non trovi un altro vuoto a un metro, ma, quando la strada è tagliata per tutta la larghezza, ci vai dentro, ti attacchi al volante e aspetti cinque secondi per sapere quante ruote ti sono rimaste.
Una si cambia, ma due ruote squarciate vogliono dire ore di viaggio sul cerchione. Fino al primo venditore di gomme usate e, poi, fino al gommista, per farla montare sul cerchione. Perché, una volta usciti dalle capitali provinciali, i due mestieri sono separati e l’orario di apertura va dall’alba al tramonto, con chiusura il sabato, se il proprietario è evangelico; la domenica, se cattolico.
“È colpa tua”, diranno le ben note persone prudenti: “Basta andare piano”. Vero, ma rispettando il limite di 80 km l’ora, non hai il tempo per arrivare a destinazione prima del buio, il grande buio. In Africa, alle 17.45, la luce si abbassa; alle 18, si vede solo quella dei fari dei camion che ti vengono contro.
A quell’ora, il privato che possieda una macchina o un piccolo camion, è già a casa, e circolano solo i bisonti: quelli che portano i container su e giù per il paese, dai porti di Luanda e di Lobito, e i semi articolati, carichi di cemento e tondino di ferro. Anche le loro mezze luci ti attraggono come una falena e non sai mai quanto spazio rimanga fra il loro parafango, più alto della tua testa, e il bordo della strada. Rallenti, quasi ti fermi, riparti, acceleri e, magari, ti trovi davanti a una moto che ti viene incontro con il faro spento o a un camion che viaggia nella tua stessa direzione, senza luci, o solo con un faro anteriore che funziona a metà e tu non vedi.
Sono tanto invisibili che neppure la polizia stradale li vede.
Al contrario, vede benissimo te, e ti ferma, per spiegarti che in Angola non puoi abbattere lo schienale dei sedili posteriori per far posto a una valigia grande: stai cambiando l’uso per il quale il veicolo è stato omologato. Un problema, quando la macchina ha un bagagliaio buono solo per la spesa al supermercato di un single, ma una soluzione si trova sempre: basta mettere la valigia di piatto sui sedili posteriori e tutti sono contenti.
Quando guidi di notte, il vero motivo d’ansia non sono i veicoli, ma i viandanti: in mezzo al nulla, nella notte nera, appaiono all’improvviso sul margine della strada e scompaiono un attimo dopo che li hai visti. Non so se sia San Cristoforo a proteggerli, ma, di certo, devono avere qualche protezione in alto loco.
Di sicuro ha protetto me, quando, alle otto di sera, ho abbassato gli abbaglianti per incrociare una macchina e, all’ultimo momento, ho visto un camion messo di traverso sulla strada, la cabina in un fosso e il cassone sospeso nell’aria. Fermo, senza luci, senza triangolo, senza catarifrangenti: una montagna.
Un attimo, e il fermo della ribalta del cassone centra il montante destro del parabrezza, il vetro esplode, il tetto si arcua, il parafango destro si accartoccia, la portiera rientra mentre si alza una nuvola di cavoli e pomodori: il carico del camion. Un pomodoro, ancora verde, rotola sul mio sedile. Torna il silenzio della notte africana.
Cento giorni di fermo macchina per riparazioni.
Riparto un martedì, con tutta la prudenza e i buoni propositi del caso, e il mercoledì, alle quattro del pomeriggio, in piena luce, uno schianto e lo specchietto retrovisore sinistro vola nell’aria.
Una Toyota Hilux ha deciso di sorpassarmi a 140 km l’ora sulla sinistra, due ruote sull’asfalto, due sull’erba, io già sulla carreggiata opposta per evitare l’ennesimo cratere. Poi l’autista si accorge di un sasso sulla sua traiettoria, inchioda e con la ruota anteriore destra bloccata disegna la mia fiancata sinistra.
Sono cose che succedono, ma gli incidenti si provocano anche, magari usando le pietre al posto del triangolo e, grigie sull’asfalto grigio, invisibili all’imbrunire; le corsie segnalate con tubi di ferro cementati al suolo; i coni della polizia riempiti di pietre.
Viaggiare in macchina, in Angola, è ancora un’impresa, e mi ostino a portarla a termine da solo, contro il parere di tutti.
Ricompensa la libertà, mentre la strada scorre fra montagne, fiumi, savana e baobab, che qui chiamano ‘mbondeiro.
Com’è verde la mia Angola!